Era settembre a Lampedusa, quindici anni fa.

Ero a bordo di una motovedetta della Guardia Costiera, come giornalista. Arrivò una richiesta di soccorso: un barcone in difficoltà, a poche miglia da lì.

La motovedetta correva nel blu del Mediterraneo.

Finalmente, all’orizzonte, un puntino. Il puntino si rivelò un gommone stracarico di migranti. Stava andando a fondo: quelli seduti sui bordi avevano già i piedi nell’acqua. Ottanta paia di occhi ci fissavano in silenzio.

La faccia che non scordo è quella di un ragazzo di carnagione scura, un medio orientale, sui venticinque anni.

La motovedetta, caricati i naufraghi, filava, e il ragazzo guardava come tutti verso nord: tranne me che guardavo loro.

Così non vidi la sottilissima striscia di terra che si profilava alle mie spalle.

Vidi invece quel ragazzo inginocchiarsi, e trarre da una tasca un libretto fradicio di mare, che aprì sul ponte della barca.

Il ragazzo pregava.

Mi voltai, vidi ancora lontana Lampedusa, capii: terra, Italia, Europa. Lo sconosciuto ringraziava Dio per avercela fatta. Guardai meglio il libretto bagnato, era un Vangelo.

Un cristiano che aveva patito tutto, perso tutto, arrivava nel nostro mondo.

Questi saranno uomini diversi, ho pensato, da noi. Più vivi: forti del dolore traversato. Nell’impigrito Occidente, povero di figli e speranza, entrano anche uomini così.

Noi, spesso, non ce ne accorgiamo.

Marina Corradi

(27 marzo 2024