Tratto dal “foglio mensile” A cura di Don Valeriano
Un santo al mese
VENCESLAO I DI BOEMIA SANTO
Benché sia passato alla storia come il “buon re”, Venceslao I di Boemia era in realtà un duca, nipote di Borivoj, primo duca storicamente documentato di Boemia, e convertito al cristianesimo da san Cirillo, padre dell’alfabeto cirillico ancor oggi in uso in tanti stati dell’est europeo. Nei decenni precedenti l’anno 1000 le regioni dell’Europa centrale erano scosse da lotte politiche abbastanza violente, e fu in questo contesto che si affermò il regno di Moravia, della quale il ducato di Boemia era parte integrante. Alle lotte di potere si intrecciavano anche, spesso pretestuosamente, le questioni religiose, e fu così che al cristiano Borivoj succedette il figlio Vratislao, che pur non arrivando a dichiararsi apertamente pagano, prese tuttavia le distanze dai movimenti religiosi e la cui moglie Drahomira, benché battezzata, era tuttavia figlia di nobili pagani e fermamente convinta che chiesa e stato dovessero restare entità separate. Fu questa convinzione a spingere Drahomira ad osteggiare apertamente Ludmila moglie di Borovoj, nonna di Venceslao e anch’essa santa, accusandola di voler educare il giovane Venceslao come un monaco più che come un regnante. Così, quando nel 921, con la morte di Vratislao, Drahomira divenne reggente in attesa che l’ancora tredicenne Venceslao raggiungesse la maggiore età, la prima cosa di cui si preoccupò fu quella di far eliminare fisicamente la suocera; immediatamente dopo prese provvedimenti atti a limitare l’influenza del clero sulle faccende statali. Questo non bastò tuttavia a far dimenticare al giovane Venceslao la sua educazione cristiana, e quando cinque anni dopo, raggiunta ormai la maggiore età, divenne a pieno titolo duca di Boemia, esiliò la madre per esercitare cristianamente il suo ruolo di governante. Dieci anni durò il suo governo, durante i quali prima la madre e poi il fratello minore, Boleslao, tentarono a più riprese di impadronirsi di nuovo del potere. Fino a riuscirci il 28 settembre del 935, quando con la scusa di festeggiare i santi Cosma e Damiano, Boleslao convinse il fratello ad accettare l’invito a una festa nel corso della quale tre sicari pugnalarono a morte il “buon re”. Solo dieci anni durò dunque il “regno” di Venceslao, ma tanto è bastato a fargli guadagnare una imperitura fama di sant’uomo, valoroso guerriero e buon governante. La sua memoria è infatti ancora ben viva nella cultura popolare boema e morava e nella moderna Repubblica Ceca, di cui è il patrono. E la sua memoria continua ancor oggi ad intrecciarsi con le vicende storiche di quello che fu il suo “regno”. Proprio nella piazza a lui intitolata, a Praga, la Cecoslovacchia dichiarò la sua indipendenza dall’impero austro-ungarico nel 1918, e in quell’occasione l’inno “A san Venceslao”, un vecchio canto risalente al XII secolo, fu addirittura proposto come inno nazionale del neonato stato. E sempre in questa piazza, poco più di 50 anni dopo, si diede fuoco Jan Palach, studente universitario di filosofia, in segno di protesta contro l’oppressione sovietica, dando inizio al movimento conosciuto come Primavera di Praga.
S ANTO DEL MESE DI LUGLIO
San Giacomo Il Maggiore – 25 Luglio
Fu uno dei dodici apostoli. Nacque in Galilea circa dodici anni prima di Gesù. Era fratello di San Giovanni, figlio di Zebedeo pescatore in Betsaida, sul lago di Tiberiade e di Salome, discepola di Gesù. L’appellativo “maggiore” gli venne dal fatto che la sua chiamata fu antecedente a quella dell’altro San Giacomo, figlio di Alfeo, che fu detto perciò “minore”.
Chiamato all’apostolato da Gesù, lo segui abbandonando le reti e la barca del padre. Questa generosità gli fruttò una speciale benevolenza da parte del maestro, sì da aver parte alle sue più intime confidenze: assistette con San Pietro e San Giovanni alla risurrezione della figlia di Giàiro, e partecipò da vicino all’agonia di Gesù nell’orto del Getsemani.
Disceso lo Spirito Santo nella Pentecoste, San Giacomo fu uno dei più zelanti predicatori del vangelo, tanto da spingersi fino in Spagna. Qui lasciò un’impronta tale che molti secoli dopo, quando i Mori la invasero mettendola a ferro e a fuoco, veniva universalmente invocato e più di una volta fu veduto un guerriero celeste su di un cavallo bianco che faceva terribile strage degli infedeli.
Tornato in Gerusalemme, per ordine del re Erode Agrippa che voleva rendersi grato ai Giudei, fu fatto incarcerare e poi decapitare. La confessione della sua fede convertì il soldato che l’aveva condotto ai giudici, morto poi anch’egli martire. Il suo corpo, meta di continui pellegrinaggi, riposa nella basilica di Compostela in Spagna.
SANTO DEL MESE DI AGOSTO
San Massimiliano Maria Kolbe – 14 Agosto
Raimondo Kolbe nacque in Polonia il 7 gennaio 1894 da ferventi genitori cristiani. Accolto nel collegio dai francescani conventuali di Leopoli per una formazione intellettuale e cristiana, passò poco dopo nel noviziato della comunità, prendendo il nome di Massimiliano. Inviato a Roma all’università Gregoriana, conseguì la laurea in filosofia e al Collegio Serafico quella in teologia. Il 28 aprile 1918 fu ordinato sacerdote. Innamorato della Vergine, fondò nel 1917 la Milizia dell’Immacolata per la conversione di tutti gli uomini per mezzo di Maria.
Dopo sei anni, ammalatosi di tubercolosi, ritornò in Polonia, a Cracovia, e non potendo insegnare a causa della sua salute malferma, si dedicò all’apostolato mariano, soprattutto con la stampa, impiantando un’officina, che andò sviluppandosi quasi miracolosamente, e attirando attorno a sé un gran numero di giovani desiderosi di condividere la sua vita. In seguito estese il suo apostolato missionario in Europa e in Asia. In Giappone, a Nagasaki, nel 1930 fondò la “Città di Maria”, dove lavorò come missionario per sei anni.
Qui si rifugeranno gli orfani dopo l’esplosione della bomba atomica. Un’altra casa mariana venne eretta anche in India. Ritornato in Polonia per curare la sua malattia, quando scoppiò nel febbraio 1941 la seconda guerra mondiale, fu incarcerato e deportato nel campo di concentramento ad Auschwitz, dove si prodigò nel servizio sacerdotale.
Quando il comandante condannò, per rappresaglia, dieci innocenti al bunker della fame, Massimiliano, in uno slancio di carità, offrì la sua vita di sacerdote in cambio di quella di un padre di famiglia, realizzando così il sogno del martirio, la estrema testimonianza del suo amore per Dio e i fratelli.
SAN GREGORIO BARBARIGO
I milanesi erano soliti ripetere ai bergamaschi, complimentandosi per il loro vescovo: «Noi abbiamo un santo cardinale morto, san Carlo Borromeo, voi avete un vescovo vivo». Vescovo vivo era Gregorio Barbarigo, il quale, tra l’altro, aveva una stima sconfinata di san Carlo. Lo aveva scelto come modello di vita spirituale e come esempio di impegno pastorale quando tentò di realizzare nella propria diocesi le riforme volute dal concilio di Trento.
Gregorio Barbarigo era nato a Venezia nel 1625 da un’antica e nobile famiglia istriana immigrata nella città lagunare. Educato alla scienza e alle virtù da un papà religiosissimo, a ventitré anni seguì il cugino Pietro Duodo a Miinster, come segretario di Alvise Contarini, che era ambasciatore della Serenissima Repubblica al congresso di pace di Westfalia.
In Germania, dove rimase cinque anni, il Barbarigo strinse amicizia con il nunzio papale Fabio Chigi che lo introdusse nell’ascetica di Francesco di Sales e l’avviò nello studio del latino e delle scienze religiose. Fu ancora il Chigi a consigliare il giovane Barbarigo, una volta tornato a Venezia, a laurearsi in diritto canonico in vista di un suo possibile impiego a Roma. Il Barbarigo lo ascoltò e si iscrisse all’università di Padova, dalla quale uscì dottore il 25 settembre 1655. Nel frattempo aveva maturato la vocazione al sacerdozio. Due mesi dopo l’ordinazione, si stabiliva a Roma, chiamatovi da Alessandro VII, l’amico Chigi diventato papa. Nella capitale Gregorio dimorò in una casa accogliente, stracolma di libri, che egli intendeva trasformare in una «locanda di letterati». Intanto su Roma si abbatteva la peste e il giovane prete Barbarigo venne incaricato di organizzare i soccorsi nel popolare rione di Trastevere. «Avevo una paura al principio, che mi sentivo morire», scriveva al padre. Ma poi si buttò con passione e sprezzo del pericolo a eseguire la sua missione, che era di «dar ordini perché vengano le carrette […] a levar li morti e li ammalati, portar il sussidio alle case serrate […] e veder se hanno bisogno di niente».
Cessata la peste, il Barbarigo venne nominato vescovo di Bergamo. Raggiunse la città lombarda portando con sé lo stretto necessario e, dei tanti libri, solo la biografia di san Carlo Borromeo. Prima di prendere possesso della diocesi inviò ai fedeli e al clero una lettera pastorale nella quale diceva: «Il distintivo del buon pastore è la carità». E alla più genuina carità improntò il suo ministero, riordinando la diocesi, eliminando abusi, restaurando la disciplina nel clero e nei monasteri, curando l’educazione catechistica e la preparazione dei futuri sacerdoti. Aveva progettato un grande seminario, ma non poté realizzarlo perché nel frattempo venne eletto cardinale e destinato alla diocesi di Padova. Nella città del Santo giunse in forma privata, osteggiato dal capitolo della cattedrale che temeva il suo rigore morale e la sua decisa volontà di riforma. A Padova Gregorio fu pastore esemplare e infaticabile. Visitò più volte le trecentoventi parrocchie della diocesi, stimolando il processo della riforma del clero e organizzando scuole di catechismo per fanciulli e adulti. Suo fiore all’occhiello, il seminario: lo collocò in un vecchio convento acquistato con la vendita di tutta l’argenteria della curia.
Per l’aggiornamento del clero radunò alcuni importanti sinodi. Il grande vescovo, nei due conclavi ai quali partecipò, rischiò di venire eletto papa, tant’era la stima di cui godeva. Alla sua morte, avvenuta il 18 giugno 1697, durante una visita pastorale, nella sola città di Padova c’erano quarantadue scuole di dottrina cristiana, e trecentoquattordici scuole nell’intera diocesi. Fu incluso nell’albo dei santi, da Giovanni XXIII, nel 1960.
SAN CELESTINO V – PIETRO di MORRONE
(19/maggio)
Pietro Angeleri nacque verso il 1215 a Isernia. Dalla madre, rimasta vedova, fu avviato agli studi ecclesiastici, ma siccome si sentiva attratto dalle austerità della vita monastica, a vent’anni Pietro si fece benedettino a Faifoli (Benevento). Dopo tre anni fu ordinato sacerdote a Roma. A motivo della grande attrattiva che sentiva per la solitudine, Pietro di Morrone si ritirò a vita eremita sulla Maiella. Organizzò per i laici una pia associazione, con l’impegno di pregare ogni giorno, di amarsi vicendevolmente e visitare i poveri e i malati, per soccorrere i quali non esitò a far vendere i calici e gli ornamenti preziosi delle chiese del suo Ordine. Alla morte di Niccolò IV (1292) la Santa Sede rimase vacante per 27 mesi perché gli undici elettori erano divisi tra i due partiti dei Colonna e degli Orsini. L’elezione di Pietro da Morrone è la più strana che si ricordi: nella primavera del 1294 il re di Napoli si era recato a Perugia e aveva parlamentato con i cardinali radunati in conclave. Di lì era passato a Sulmona ove concesse dei privilegi ai seguaci del Morrone il quale, poco dopo, scrisse una lettera al cardinale Latino in cui minacciava terribili castighi da parte di Dio se, entro quattro mesi, il sacro Collegio non avesse eletto il papa. Tutti avevano sentito parlare dell’eremita come di un taumaturgo, ma nessuno lo conosceva di vista. Convinti che fosse la persona più adatta a governare la Chiesa, su proposta del cardinal Latino gli diedero il voto. Una commissione di prelati e di notai fu mandata sulle montagne della Maiella per chiedere al Morrone se voleva accettare. I legati trovarono in una spelonca un vecchio di oltre ottant’anni, pallido, emaciato dai digiuni, vestito di ruvido panno e come calzature pelli d’asino. Gli comunicarono l’elezione al papato, ma egli l’accettò soltanto perché pressato dai confratelli. Davanti la chiesa dì Santa Maria di Collemaggio, che Pietro aveva fatto costruire (1287), il 29-8-1294 ricevette in testa la tiara già di Innocenzo III, e il nome di Celestino V. Ben presto però si dileguarono le speranze riposte in lui, ignaro di latino, digiuno di scienze teologiche e giuridiche, privo di esperienza politica e diplomatica. Il pontefice, sordo ai consigli dei cardinali, s’impigliò ogni giorno più nelle reti che ambiziosi principi e astuti legulei gli tesero. Cominciò a dispensare favori spirituali senza discernimento, specialmente alle chiese del suo Ordine; pensò di mutare in Celestini gli altri monaci; cercò di obbligare i benedettini di monte Cassino a indossare la tonaca grìgia dei suoi religiosi; permise ai Francescani Spirituali di separarsi dagli altri sotto il nome di “Poveri Eremiti” non considerando in essi che l’austerità della vita. In ottobre Celestino V decise di lasciate Ll’Aquila, ma si lasciò trascinare a Napoli dal re suo amico e protettore. I Curiali, durante i mesi del suo pontificato, approfittarono della sua inesperienza per vendere grazie e privilegi, mentre i furbi ridevano dicendo che il papa comandava “nella pienezza della sua semplicità”. Non volendo perdere nulla delle sue abitudini claustrali, in avvento, in un angolo del Castello Nuovo, Celestino V si fece costruire in legno una colletta in cui passare la quarantena in preparazione al Natale. Jacopone da Todi frattanto gl’indirizzava le sue frecciate poetiche: “Che farai, Pier di Morrone? – sei venuto al paragone. – Vedremo l’operato – che in cella hai contemplato. – Se il mondo è da te ingannato, – seguirà maleditione”. Colpito dal disordine che s’infiltrava nella Chiesa a motivo della sua incapacità
amministrativa, Celestino V si rese conto di non essere all’altezza del suo compito, motivo per
cui si sentiva gemere, in preda ai rimorsi: “Dio mio, mentre regno sulle anime, ecco che perdo
la mia”. Consultò allora esperti canonisti e tutti gli risposero che il papa poteva abdicare per sufficienti motivi. Dopo aver preparato l’atto di rinuncia al potere pontificale e una costituzione che riconosceva al pontefice la facoltà di dimettersi, il giorno di S. Lucia (13 dicembre) convocò il concistoro, ordinò ai presenti di non interromperlo, poi con voce alta e ferma lesse la sua rinuncia libera e spontanea al pontificato “per causa di umiltà, di perfetta vita e preservazione di coscienza, per debolezza di salute e difetto di scienza, per ricuperare la pace e la consolazione dell’antico vivere’”. Fra le lacrime degli astanti depose le insegne papali per rivestirsi del suo vecchio saio. Il 24 dicembre fu eletto papa il cardinal Caetani col nome di Bonifacio VIII. Uno dei suoi primi atti fu di annullare tutti i favori accordati dal suo predecessore il quale bramava far ritorno al suo eremo, mentre il papa voleva che lo seguisse in Campania per impedire eventuali scismi o ribellioni. Dopo vari tentativi di fuga per ritrovare la solitudine cui era abituato, Pietro Celestino fu catturato e tradotto nel castello di Fumone vi morì il 19-5-1296 cantando salmi. Clemente V lo canonizzò nel 1313. Le sue reliquie sono venerate a L’Aquila, nella chiesa di Santa Maria di Collemaggio.
(19/maggio)
San LEONE IX, PAPA
Il suo nome da laico era Brunone di Dagsburg e nacque in Alsazia nel 1002. Discendeva con i suoi genitori da grandi vassalli, che da molte generazioni avevano avuto funzioni di governo. Fu affidato sui cinque anni, al vescovo di Toul, Bertoldo, promotore di fiorenti scuole, frequentate in quell’epoca da allievi appartenenti alla nobiltà.
Studiò con impegno, in compagnia del cugino Adalberone, futuro vescovo di Metz e già da così giovane si poteva intuire che sarebbe diventato un buon scrittore, teologo, canonista, musicista. A diciotto anni divenne canonico di Saint-Étienne e a 22 anni divenne diacono.
Nel 1024 morì l’imperatore Enrico II, e al suo posto ascese al trono un altro cugino di Brunone, Corrado II, presso il quale fu inviato per introdursi nella pratica degli affari pubblici, ricoprendo la carica di cappellano.
Negli anni 1025 – 1026 il giovane canonico si trovò a servire il suo vescovo e il suo imperatore alla testa dei cavalieri germanici, che operavano nelle pianure lombarde. Ciò costituiva sicuro merito per accedere ad un episcopato (la lotta per le investiture, comparirà una 40ª di anni dopo); nell’aprile del 1026 morì il vescovo di Toul e il clero della diocesi procedette, come consueto, all’elezione del successore designando il giovane diacono; magari anche per ingraziarsi l’imperatore suo parente; Corrado II approvò e la consacrazione avvenne il 9 settembre 1027.
Il suo episcopato durò circa 25 anni, della sua opera vescovile non vi sono molti resoconti, al contrario si sa che diede forte impulso alla vita monastica, riformando, approvando e incoraggiando la fondazione di monasteri in varie località della diocesi.
Come vescovo-vassallo, dovette difendersi dai saccheggi che operava un vicino signore, organizzò una spedizione punitiva che però si risolse negativamente, per i rinforzi affluiti a favore del signorotto.
Fu consigliere ascoltato dagli imperatori Corrado II ed Enrico III, ebbe fermezza in svariate situazioni, affermando al di là della fedeltà all’imperatore, la propria indipendenza come vescovo e sacerdote.
Nel 1048, a Roma morì il papa Damaso II e l’imperatore Enrico III, per la terza volta dovette nominare il successore, come da tempo si faceva; la sua scelta cadde sul vescovo di Toul, Brunone, il quale restio, cercò in tutti i modi di evitarlo, ma l’insistenza di Enrico III ebbe la meglio, Brunone alla fine accettò ma con la condizione che il clero e il popolo romano, approvassero questa scelta venuta da fuori; volendo così trasformare questa elezione diciamo arbitraria, in una elezione quasi regolare.
Dopo aver trascorso il Natale celebrato a Toul, prese la via per Roma in abito da pellegrino e così a piedi nudi, entrò nella Città Eterna, accolto favorevolmente da tutti, fu intronizzato il 12 febbraio 1049 prendendo il nome di Leone IX, aveva 47 anni. Con lui a Roma si trasferirono un gruppo di collaboratori lorenesi, accuratamente scelti e che già lavoravano con lui alla diocesi di Toul. Energicamente si mise ad amministrare i compiti che la carica gli conferiva, convocò dopo appena due mesi un Sinodo a Roma, senza consultare l’imperatore, per affrontare problemi generali come la simonia, fu intransigente con i vescovi colpevoli di ciò, sostituendone parecchi.
Ma l’idea più geniale che papa Leone IX ebbe, fu quella d’intraprendere una serie di viaggi, attraverso l’Europa per tenere oltre che a Roma, concili, sinodi e assemblee, le cui decisioni, prese alla presenza degli interessati, avevano un’importanza maggiore di quelle della lontana Roma.
Dal maggio 1049 fu a Pavia, poi attraversando le Alpi, andò in Sassonia, Germania, Belgio, Francia; stette a Toul e Reims dove consacrò la basilica di s. Remigio e tenne un altro Concilio contro la simonia, derivante dalla vendita delle cariche ecclesiastiche; dopo quindici giorni tenne un altro Concilio a Magonza in Germania, presente l’imperatore Enrico III e 40 vescovi delle diocesi, qui oltre che a condannare la simonia, dovette affrontare la questione del concubinato o addirittura del matrimonio dei preti e dei chierici maggiori.
Ritornò a Roma attraverso l’Alsazia e la Svizzera, per ripartire nel 1050, verso l’Italia Meridionale con Concilio a Siponto nel Gargano. Tenne altri Concilii a Roma, Firenze e Vercelli, con argomento principale la simonia, vera piaga della Chiesa di quel tempo e inoltre l’esame della dottrina del teologo francese Berengario; in ottobre sempre del 1050, ritorna in Lorena a Toul dove procede alla traslazione del corpo di s. Gerardo; visita l’Alsazia, la Renania, la Svezia.
Negli anni che seguono, 1051 e 1052 è occupato da viaggi in Italia, specie verso il Sud per motivi politici, Salerno, Benevento lo vedono ogni estate. Nel 1052 è in Ungheria per riportare la pace fra il re Andrea e l’imperatore; visitò altre città della Germania, di ritorno si fermò a Mantova dove riunì un Concilio contro la simonia e il concubinato, ma finì male, scoppiarono incidenti con molti feriti; il papa rientrò a Roma con un completo insuccesso.
Scomunicò Michele Cerulario che creò lo scisma della Chiesa Greca dalla Latina; nel maggio 1053 dovette affrontare, in uno scontro militare, i Normanni che pur essendo cristiani volevano ampliare il loro dominio tra Napoli e Capua, Leone IX come sovrano di Benevento, città concessagli dall’imperatore, dovette affrontarli con poche truppe, fu una disfatta e alla sera fu fatto prigioniero e condotto a Benevento, dove fu trattenuto per oltre otto mesi; alla fine ricevute tutte le soddisfazioni richieste, i Normanni lo lasciarono libero; ma ormai era solo un uomo molto malato, quasi moribondo affrontò il viaggio, giunse a Roma senza riprendersi e il 19 aprile 1054, morì in una casa vicino S. Pietro; aveva governato 5 intensi anni sul soglio pontificio.
Nel 1087, visto le molte guarigioni che avvenivano sulla sua tomba, papa Vittore III fece trasferire il suo corpo all’interno della basilica di S. Pietro. Roma e il ‘Martirologio Romano’ lo festeggiano il 19 aprile.
La città di Benevento nel 1762, elesse s. Leone IX suo speciale patrono, come pure è venerato in Francia in molte diocesi.
SANTO DEL MESE – SANTE PERPETUA E FELICITA
Durante la persecuzione di Settimio Severo, probabilmente il 7 marzo 203, morirono a Cartagine, nel Nord Africa, Perpetua, Felicita e altri quattro compagni. La passio di Perpetua e Felicita è fra i racconti più commoventi dell’antichità cristiana, perché ci fa conoscere, oltre alla loro altissima confessione di fede, i profondi rapporti di fraternità che esistevano fra i cristiani.
Perpetua, ventiduenne, di famiglia nobile, era sposata e aveva un bambino ancora lattante che teneva con sé in carcere. I suoi familiari erano cristiani, tranne il padre che tentò di tutto per convincerla ad abiurare.
Felicita, ancella di Perpetua, si trovava all’ottavo mese di gravidanza. Fra le due donne, la sintonia era perfetta, perché la fede cristiana le aveva rese più che sorelle. La legge di allora proibiva di esporre nell’arena, al supplizio, le donne incinte. Felicita però, tre giorni prima del martirio dei compagni, diede alla luce una bambina. Mentre si lamentava nelle doglie del parto, i carcerieri le dissero: “Ti lamenti ora, e quando dovrai subire i tormenti del martirio, cosa farai?”. Felicita rispose: “Ora sono io a soffrire, là ci sarà un Altro in me, che soffrirà per me, poiché io patisco per lui”.
Il giorno del martirio, nell’anfiteatro, Perpetua incoraggiava i suoi compagni contrapponendo alle urla della folla il canto dei salmi. Le due donne furono attaccate dalle cornate di una mucca infuriata e conclusero il martirio. Il racconto del martirio di Perpetua e Felicita, per la sua singolarità, si è diffuso come una delle glorie del Nord Africa. Il loro culto si è esteso al di là della tradizione latina, anche nella Chiesa greca e nella Chiesa siriana. I loro nomi furono inseriti nella preghiera del canone romano. Il calendario romano ne celebra la memoria il 7 marzo.
SAN GABRIELE DELL’ADDOLORATA (27/II)
F rancesco Possenti che, più tardi, avrebbe preso il nome di Gabriele dell’Addolorata, nacque a Assisi, da una famiglia agiata e di una certa rilevanza sociale. Il padre Sante, avvocato e alto funzionario dello Stato pontificio, era governatore della città, ma nel 1841 fu trasferito a Spoleto, come giudice nel locale tribunale. Morta improvvisamente la madre, il giovane Francesco, all’età di sei anni, fu affidato ai Fratelli delle scuole cristiane di Giovan Battista de La Salle, e nel 1850, a dodici anni, entrò nel collegio dei gesuiti.
Francesco studia con ottimi risultati; è un giovane elegante e vivace, e frequenta volentieri la buona società spoletina, ma sul futuro nutre molte incertezze, e si sente attratto e affascinato dalla vita religiosa. Il clima religioso di Spoleto, dopo la caduta della Repubblica romana del 1849, mirava alla valorizzazione delle comunità religiose e alla diffusione della devozione al sacro Cuore e a Maria Vergine, che aveva avuto momenti particolarmente solenni nelle celebrazioni per la definizione del dogma dell’Immacolata Concezione. Anche l’ambiente dei gesuiti rafforzò la sensibilità del giovane Francesco verso la devozione mariana, già trasmessagli dall’educazione religiosa ricevuta in famiglia. Nell’ambiente del collegio, Francesco meditò sulla vita di Cristo, e sul contrasto fra Cristo e il mondo, che sarà una delle caratteristiche della sua vocazione e che cominciò a fargli prendere le distanze dalla vita della società in cui era inserito. Al sorgere di uno stato d’animo nuovo contribuirono certamente anche i ripetuti lutti che colpirono la famiglia: oltre alla madre, due fratelli, uno dei quali morto suicida, e infine, nel 1855, la sorella maggiore Maria Luisa. Il dolore di queste prove, alle quali si aggiungeva anche uno stato di salute piuttosto malfermo (era frequentemente ammalato alle vie respiratorie), gli diede il segno dell’inconsistenza delle gioie umane, e contribuì al distacco dall’esistenza fino allora condotta, facendolo propendere per la scelta della vita religiosa. Una scelta che fu a lungo incerta, anche per l’opposizione del padre, che avrebbe voluto inserirlo nella vita amministrativa.
Dopo una prima richiesta di essere ammesso nella Compagnia di Gesù, nel 1856, su consiglio del suo confessore, scelse di entrare nella congregazione della santissima Croce e Passione, fondata da san Paolo della Croce. I passionisti erano noti in tutto lo Stato pontificio per le missioni popolari che vi tenevano. A una vita austera, vissuta in luoghi molto appartati e fatta di silenzio, preghiera e penitenza, la loro Regola univa l’esercizio della carità, che si esprimeva nella predicazione alle popolazioni più povere, le cosiddette missioni. Francesco aveva 18 anni quando chiese di essere ammesso al noviziato di Morrovalle, nei pressi di Macerata, dove nel 1856 vestì l’abito passionista assumendo il nuovo nome di Gabriele di Maria Addolorata. Gabriele vive con entusiasmo la rigidità della Regola, compie austere penitenze e mortificazioni, seguendo un percorso di formazione incentrato sulla meditazione della Passione di Cristo. Nel settembre del 1857 emette la professione religiosa e l’anno successivo si trasferisce a Pieve Torina (Macerata) per proseguire gli studi filosofici sotto la guida di Padre Norberto Cassinelli. Per completare gli studi in vista dell’ordinazione sacerdotale viene inviato nel piccolo convento dell’Immacolata Concezione di Isola, ai piedi del Gran Sasso. Qui Gabriele moltiplica le pratiche ascetiche e le devozioni mariane, esercita la carità verso i poveri della zona, mentre va crescendo la stima di cui gode presso i superiori. Nel maggio del 1861 nella cattedrale di Penne (Pescara) riceve gli ordini minori. La sua salute va però rapidamente peggiorando, anche per le privazioni cui si sottopone e le condizioni di vita del convento. Gabriele non arriva al sacerdozio. Lo stato della sua salute da una parte, ma soprattutto le vicende politiche e militari del 1860-61, che portarono alla proclamazione dell’Unità d’Italia (oltre alle numerose incursioni di bande filoborboniche nella zona del Gran Sasso), non consentirono o fecero rinviare le nuove ordinazioni sacerdotali. Ma il suo stato di salute peggiorò rapidamente e lo portò presto alla fine: Gabriele morì il 27 febbraio 1862, e il suo corpo fu inumato nella cripta della chiesa annessa al convento. La morte del giovane passionista fu ben presto ritenuta quella di un santo. Ma nel 1866, in seguito ai decreti di soppressione degli ordini religiosi emanati dal governo italiano, la comunità passionista fu costretta ad abbandonare il convento di Isola. Fu beatificato nel 1908 e canonizzato nel 1920. Papa Pio XI lo proclamò patrono della gioventù cattolica.
La vita di Timoteo
Timoteo nasce a Listra (circa 200 km a nord-ovest di Tarso) da madre giudea e padre pagano. Quando Paolo passa per quelle terre all’inizio del secondo viaggio missionario, sceglie Timoteo come compagno poiché “egli era assai stimato dai fratelli di Listra e di Iconio” (At16,2), ma lo fa circoncidere “per riguardo ai Giudei che si trovavano in quelle regioni” (At 16,3). Con l’Apostolo delle Genti, Timoteo attraversa l’Asia Minore e raggiunge la Macedonia. Accompagna poi Paolo ad Atene e di lì viene inviato a Tessalonica. Quindi, prosegue per Corinto e collabora all’evangelizzazione della città sull’istmo. La figura di Timoteo campeggia come quella di un pastore di grande rilievo. Secondo la posteriore Storia ecclesiastica di Eusebio, Timoteo fu il primo Vescovo di Efeso. Alcune sue reliquie si trovano dal 1239 in Italia nella Cattedrale di Termoli nel Molise, provenienti da Costantinopoli.
La vita di Tito
Tito è di famiglia greca, ancora pagana, ed è convertito da Paolo in uno dei suoi viaggi apostolici, per poi divenire suo collaboratore, compagno e fratello nell’apostolato. L’Apostolo delle Genti lo porta con sé a Gerusalemme, per il cosiddetto Concilio apostolico, proprio nel momento cruciale della controversia circa il battesimo dei Gentili. L’Apostolo si oppone risolutamente alla circoncisione del cristiano di Antiochia, e Tito diviene così il simbolo vivente del valore universale del Cristianesimo, senza distinzioni di nazionalità, di razza e di cultura. Dopo la partenza di Timoteo da Corinto, Paolo invita Tito con il compito di ricondurre quella indocile comunità all’obbedienza e lui riesce e riportare la pace tra la Chiesa di Corinto e l’Apostolo. A Corinto Tito è ancora rimandato da Paolo – che lo qualifica come “mio compagno e collaboratore” (2 Cor 8,23) –per organizzarvi la conclusione delle collette a favore dei cristiani di Gerusalemme. Ulteriori notizie provenienti dalle Lettere Pastorali lo qualificano come Vescovo di Creta.
Due fedeli servi del Vangelo
Paolo circoncide il discepolo Timoteo e non circoncide Tito, che pure porta con sé a Gerusalemme davanti al Concilio degli apostoli. Così nei suoi due collaboratori Paolo riunisce gli uomini della circoncisione e gli uomini della non-circoncisione; gli uomini della legge e gli uomini della fede.
Secondo la tradizione, Paolo scrive due lettere a Timoteo e una a Tito. Sono le uniche due lettere del Nuovo Testamento indirizzate non a comunità, ma a persone. L’Apostolo, ormai anziano, si lascia andare ad annotazioni ricche di affetto verso i suoi due discepoli, soddisfatto di aver riposto nelle loro mani l’annuncio del Vangelo. Secondo Benedetto XVI, Timoteo e Tito “ci insegnano a servire il Vangelo con generosità, sapendo che ciò comporta anche un servizio alla Chiesa stessa”.