Il Santo del mese
SAN LEONARDO DA PORTO MAURIZIO
Il primo merito che va ascritto a san Leonardo da Porto Maurizio (1676-1751), un frate francescano della cosiddetta «Riformella», è la propagazione della Via Crucis in tutta la Chiesa. Fu lui, nel 1731, a ottenere da Clemente XII il breve Exponi nobis che autorizzava l’allestimento in tutte le chiese della Via Crucis, fino allora un privilegio delle sole chiese francescane. Solo il santo ne eresse ben 572 nelle varie città in cui andò in missione. Attirava folle enormi con i suoi sermoni sulla Passione di Gesù, che arrivavano fino a far lacrimare e singhiozzare i presenti. San Leonardo introdusse inoltre le meditazioni per ognuna delle 14 stazioni, insegnando che la Via Crucis «è lo stesso che contemplare con tenerezza di cuore tutti quegli strazi e dolori che dalla casa di Pilato sino al Calvario soffrì sotto il peso della Croce l’amatissimo Gesù, il nostro bene». Fu sempre lui a spingere Benedetto XIV verso l’istituzione della Via Crucis al Colosseo, che venne consacrato a Dio e ai tantissimi cristiani che vi avevano patito il martirio. La prima si svolse nel 1750, in pieno Anno Santo. E il fatto religioso contribuì a evitare che il grande anfiteatro romano, a lungo utilizzato come cava di travertino, venisse smantellato. Al secolo Paolo Girolamo Casanova, il santo era rimasto orfano della madre ad appena due anni. Ricevette l’educazione religiosa dal padre. Lasciò la natìa Liguria poco più che bambino. Studiò teologia al convento romano di San Bonaventura al Palatino e a 25 anni venne ordinato sacerdote. Avrebbe voluto partire missionario per evangelizzare la Cina, ma il cardinale Colloredo gli disse: «La tua Cina sarà l’Italia». Fu così che l’Italia la girò in lungo e in largo, specie le regioni centro-settentrionali. Richiamò il popolo alla preghiera, alla penitenza e all’adorazione del Santissimo Sacramento. «È il più grande missionario del nostro secolo», disse di lui sant’Alfonso Maria de’ Liguori. Molto noto è un episodio avvenuto in Corsica, allora tormentata da insurrezioni separatiste; dopo una predica sulla Passione, gli uomini scaricarono in aria i fucili e si abbracciarono gridando a gran voce: «Viva frate Leonardo, viva la pace!». Combatté il giansenismo e la sua errata concezione di Dio, che faceva dubitare dell’amore divino. Raccomandava di porre sopra la porta delle case l’immagine di Gesù, nonché i Santissimi Nomi di Gesù e Maria. Verso la Madonna aveva una devozione filiale. Propagò la promessa delle Tre Ave Maria (che la Vergine aveva fatto a santa Matilde). Fu un convinto assertore dell’Immacolata Concezione. Consigliò di indire una consultazione con i vescovi, che chiamò «concilio per iscritto e senza spese», annunciando nella sua Lettera Profetica che l’Immacolata Concezione sarebbe stata proclamata dogmaticamente. Il suo scritto venne esposto nella cappella del convento di San Bonaventura al Palatino, dove il santo morì. Un secolo più tardi divenne papa un devotissimo dell’allora beato Leonardo, Pio IX (sarà proprio lui a canonizzarlo), che conosceva bene quella cappella, dove si ritirava spesso a pregare. Poco dopo essere salito al Soglio petrino, Pio IX volle leggere e avere copia della Lettera Profetica, le cui parole gli rimasero impresse. Il 2 febbraio 1849, sollecitato anche dalle suppliche di molti fedeli, il pontefice pubblicò l’enciclica con cui chiedeva a tutti i vescovi del mondo di manifestare quale fosse il loro pensiero e la pietà del popolo cristiano verso l’Immacolata Concezione. Si sa com’è andata a finire: l’8 dicembre 1854 il dogma venne solennemente proclamato. Patrono di: missioni al popolo.
SANTA MARIA BERTILLA BOSCARDIN
(20/X)
Anna Francesca Boscardin nacque a Brendola, nel Vicentino, il 6 ottobre 1888.
Angelo, il padre, a differenza della sua virtuosissima sposa e della pia e ingenua figliuola, era tutt’altro che un angelo di bontà. Quando i fumi del vino, cui era dedito, gli salivano al cervello, e una tetra e infondata gelosia per la sua sposa lo invadeva, allora l’uomo diventava una bestia. La sua cattiveria aveva delle insane esplosioni di collera che mettevano paura. Anna tentava sempre, ma spesso inutilmente, di difendere la mamma e rabbonire il babbo. Il suo carattere mite e dolce e la sua devozione nelle preghiere erano anche per il babbo e sarà lui stesso a confessarlo un forte richiamo al dovere di correggersi, di pregare. Annetta non fu una cima di intelligenza, ma in compenso aveva sortito un cuore mite e sensibilissimo, un a volontà tenacissima e intraprendente, per cui, anche se a scuola passò per ignorantella, si distinse sempre per l’ottima condotta.
«Quando sarò grande anch’io mi farò suora», aveva detto una volta alla mamma vedendo al suo paese alcune suore che giravano alla questua. Questa ispirazione si trasformò presto in proposito. Né l’incertezza del parroco, nè l’esitazione del babbo a lasciarla partire valsero ad estinguere in lei la fiamma della vocazione.
L’8 aprile 1905 Annetta, accompagnata dai genitori, entra nella casa Madre delle Suore Dorotee di Vicenza. «Sii buona, Anna… pensa solo a farti santa… prega per noi… per il babbo tuo!… », le disse la mamma. La buona figliuola aveva preso sul serio le consegne della mamma: la sua vita sarà la pratica costante di tutte le virtù fino all’eroismo.
L’8 dicembre 1907, festa dell’Immacolata, Suor Bertilla si consacrò definitivamente a Dio emettendo i santi voti nella casa Madre di Vicenza. Fu in seguito mandata a Treviso per sostituire una consorella infermiera. Suor Bertilla che aveva sempre lavorato in cucina come sguattera, si rivelò quasi d’improvviso una infermiera abilissima, apprezzata e ricercata dai medici nei casi più difficili e delicati, benvoluta dai malati. Destinata per molto tempo al reparto dei bambini difterici, ebbe per loro le più attente e materne cure. Altri reparti e altri ammalati, ai quali fu successivamente destinata, ammirarono in Suor Bertilla l’angelica infermiera dalla carità eroica. La sua presenza e le sue parole erano una benedizione, una consolazione.
Le incursioni aeree su Treviso durante la prima guerra mondiale portarono il terrore e lo scompiglio nella città e anche nell’ospedale dove era Suor Bertilla. In quei momenti difficili e tristi ella si inginocchiava in mezzo al reparto a recitare il Rosario fino a che il pericolo fosse cessato.
Il suo amore per la Madre di Dio ebbe tutta la tenerezza, la fiducia, l’incantevole semplicità di una figlia per la sua madre. A tutti raccomandava la devozione alla Madonna. E nel Cuore di Lei metteva tutti i suoi assistiti.
La sua attività instancabile, le veglie continue, la sopportazione silenziosa del suo male che da tempo nascondeva con eroica pazienza, consumarono in breve la salute robusta dell’umile suora. Il 16 ottobre 1922, per volere della Superiora, un professore venne chiamato a visitare Suor Bertilla. La diagnosi rivelò la necessità di un intervento chirurgico per estirpare un fibroma. L’indomani ebbe luogo l’operazione, ma ormai era troppo tardi. Tre giorni di acutissimi dolori passati in santa rassegnazione e assoluta sottomissione al divino volere bastarono per preparare l’incontro di Suor Berlina col suo Sposo Celeste. Suor Bertilla morì il 20 ottobre 1922. Fu canonizzata da san Giovanni XXIII il 19 maggio 1961.
SAN MAURIZIO E COMPAGNI MARTIRI Un santo al mese
22/9
Durante l’impero di Diocleziano e Massimiano, fra le legioni romane ve n’era una chiamata « Legione Tebea». Era composta da 6.600 uomini, tutti cristiani, pieni di tanta fede e tanta pietà che pareva una comunità religiosa. L’esercito romano non aveva legione migliore di questa, perchè quelli che sono veramente cristiani, sono sempre i più diligenti nel compiere il loro dovere.
Capo di questa legione era Maurizio. Cresciuto fra le armi, egli univa al coraggio un amore a Gesù Cristo davvero ammirabile e praticava fedelmente le massime evangeliche. Un giorno Maurizio ricevette l’ordine dall’imperatore di recarsi in Italia, per unirsi al resto dell’esercito romano e andare nelle Gallie contro i Bagaudi, contadini, pastori e nomadi della Gallia, ancora legati alle loro tradizioni celtiche. Maurizio, come sempre in tutte le cose che non si opponevano alla legge di Dio, prontamente ubbidì: venne in Italia, e s’incamminò verso la Gallia con la sua legione. Giunti nella Valesia (Svizzera) presso Agauno, l’imperatore ordinò una sosta, durante la quale dispose che tutti i soldati assistessero ai sacrifici e giurassero di far strage di tutti i Cristiani. S. Maurizio ed i suoi legionari si rifiutarono, disposti a morire anzichè offendere Dio. Massimiano allora ordinò che la legione fosse decimata; e udendo che gli altri erano rimasti fermi nel loro proposito,ordinò una seconda esecuione. Ma quegli eroi intrepidi, invidiando la morte dei loro compagni su cui era caduta la sorte, mandarono all’imperatore questa protesta: « Signore, noi siamo vostri soldati, ma nello stesso tempo servi di Dio e gloriandoci di questo, ne facciamo una spontanea confessione. A voi dobbiamo il servizio militare, a Dio l’innocenza; da voi riceviamo lo stipendio, da Dio abbiamo ricevuto la vita. Non possiamo dunque ubbidirvi offendendo Dio, Creatore e Padrone nostro e vostro, ancorchè ricusiate di riconoscerlo per tale. Vi offriamo le nostre persone contro qualsivoglia nemico, ma non contro innocenti. Voi ci comandate di perseguitare i Cristiani; eccoci qui: noi siamo cristiani e confessiamo Iddio Padre, autore di tutte le cose, e Gesù Cristo, suo Figliuolo. Abbiamo le armi in mano, ma non faremo resistenza, perchè amiamo più morire innocenti, che vivere colpevoli ». Questa protesta inferocì Massimiano, che comandò ad un’altra legione di circondare la Tebea, e di uccidere tutti quelli che persistevano a confessare il nome di Gesù. Quei prodi, volendo, avrebbero certamente potuto difendersi con le armi, e il cielo stesso sarebbe forse venuto in loro aiuto, ma essi preferirono dare la vita per Gesù Cristo, ed in breve tempo furono tutti trucidati! Ad Agaunum, in Raetia, l’attuale Saint Maurice-en-Valais, sorse il più antico luogo di culto dedicato a San Maurizio: “Territorialis Abbatia S. Mauritii Agaunensis”, l’ abbazia svizzera del cantone vallese. Qui è da cercare il punto focale del futuro culto vivissimo dedicato a San Maurizio nelle Alpi e altrove, che fece di San Maurizio dapprima il patrono del Sacro Romano Impero, poi, entrato il Vallese occidentale nei possedimenti dei Savoia, il culto dei martiri fu legato strettamente alla loro dinastia Fu istituto l’Ordine Cavalleresco di San Maurizio, unito in seguito con quello di San Lazzaro. Le reliquie di San Maurizio furono traslate a Torino e ora custodite nella cappella della Sindone.
SANTO STEFANO DI UNGHERIA (16 AGOSTO
Stefano nacque fra il 969 e il 975, intorno al 995-996 sposò Gisella, figlia del Duca di Baviera e nel 997 succedette al padre sul Trono d’Ungheria. Ciò lo costrinse a un’aspra guerra contro un altro pretendente alla Corona, e nel 1000 Papa Silvestro II, con il beneplacito dell’Imperatore Ottone III, gli fece pervenire le insegne regali: nel Natale di quello stesso anno Stefano fu consacrato e incoronato primo Re di Ungheria.
Tra i più importanti provvedimenti da lui adottati, vi fu quello riguardante la strutturazione della Chiesa ungherese: a questo proposito la tradizione gli attribuisce la creazione di dieci diocesi e la fondazione e il consolidamento di numerose abbazie, tra le quali spicca quella benedettina di Pannonhalma.
Egli stabilì poi che venisse costruita una chiesa comune ogni dieci villaggi. La cristianizzazione del popolo ungherese operata dal santo re si effettuò nel segno della riforma cluniacense. Per altro egli si mantenne in corrispondenza con l’abate di Cluny Odilo.
Inoltre, Stefano fece venire dall’estero molti ecclesiastici, affinché collaborassero alla sua opera di evangelizzazione: il più famoso di questi fu san Gerardo, proveniente da Venezia, che diventò vescovo e che perse la vita in seguito a una rivolta pagana.
Stefano ebbe massimamente a cuore la sicurezza dei pellegrini che si recavano in Terra Santa: rese meno precario il loro cammino lungo le terre balcaniche e fece costruire a Gerusalemme un alloggio per gli ungheresi che là si recavano.
È opportuno ricordare che la nuova chiesa da lui creata, con le scuole erette presso i capitoli e i chiostri, pose la basi dell’insegnamento in Ungheria. Stefano si dimostrò pure un valente sovrano, capace di rafforzare il suo regno e di condurre un’equilibrata politica estera.
Il santo re morì nel 1038 e fu canonizzato nel 1083, dopo che il nuovo sovrano Ladislao si era fatto protettore del suo culto, presentandosi così come il suo erede spirituale e una sorta di secondo fondatore del regno cristiano d’Ungheria.
La canonizzazione sarebbe avvenuta per ordine del papa Gregorio VII e alla presenza di un suo legato. Particolarmente interessante risulta il fatto che Stefano fu il primo sovrano medievale a essere santificato come “confessore” e non come martire, a motivo dei meriti religiosi da lui acquistati durante la vita: in Stefano la figura del re giusto si fonde con quella del santo cristiano e ciò rappresentò subito la chiara dimostrazione che un sovrano può diventare santo al fianco della Chiesa.
Un culto sempre vivo nella devozione degli ungheresi
La Legenda maior che lo riguarda fa di Stefano un autentico soldato di Cristo, sempre assistito da una schiera di santi: non bisogna dimenticare a questo proposito che anche la moglie Gisella, che negli ultimi anni di vita divenne badessa di un monastero benedettino bavarese, è annoverata tra i santi e le sue reliquie sono ancora oggi assai venerate e meta di continui pellegrinaggi.
Vi sono poi una Legenda Minor, che ci tramanda l’immagine di un re Stefano energico e rigoroso, e una terza leggenda, che potrebbe essere stata composta dal vescovo di Gyor Arduino, la quale aggiunge numerosi particolari sulla vita e l’opera di Stefano: per esempio, in essa si racconta come il santo re, in punto di morte, avesse offerto il proprio regno alla Vergine Maria.
La novità più significativa contenuta in questa leggenda di Arduino è rappresentata dal racconto della canonizzazione del 1083. Il culto di Santo Stefano non si è mai appannato nel corso dei secoli e ancora oggi è assai vivo in Ungheria: la sua festa è la più importante e la più sentita dal popolo magiaro, che la celebra con particolare partecipazione. L’iconografia di Stefano è assai ricca: egli vi appare sempre come il re saggio, magnanimo e devoto.
Un santo al mese
SAN LEOPOLDO MANDIC (30 luglio)
San Leopoldo nacque a Castelnovo alle Bocche di Cattaro (Kotor) il 12 maggio 1866, undecimo dei dodici figli della pia e laboriosa famiglia croata di Pietro Mandic e di Carlotta Carevic. Al battesimo ricevette il nome di Bogdan (Adeodato) Giovanni. Fin da ragazzo, Bogdan dimostrò un carattere forte, ma si rivelò in lui anche una spiccata pietà, la nobiltà d’animo e l’impegno nella scuola. Presto egli si sentì portato alla vita religiosa.
A Castelnovo in quel tempo prestavano la loro opera i PP. Cappuccini della Provincia Veneta, e Bogdan maturò la decisione di entrare nell’Ordine dei Cappuccini. Fu accolto prima nel seminario serafico di Udine e poi, diciottenne, il 2 maggio 1884 – a Bassano del Grappa (Vicenza) – vestì l’abito religioso, ricevendo il nuovo nome di fra Leopoldo e impegnandosi a vivere la regola e lo spirito di s. Francesco d’Assisi. Continuò gli studi filosofici e teologici a Padova e a Venezia, dove – nella basilica della Madonna della Salute – fu ordinato sacerdote, il 20 settembre 1890. Sin dal 1887, fra Leopoldo si era sentito chiamato, più volte e “chiaramente”, a promuovere l’unione dei cristiani orientali separati con la Chiesa cattolica. Ma come realizzare questa vocazione? Causa l’esile costituzione fisica e un difetto di pronuncia, non poté dedicarsi alla predicazione. I superiori pertanto lo destinarono a servizio delle anime, quale ministro della riconciliazione. Fu confessore in varie città: Venezia, Zara, Bassano del Grappa, Thiene al santuario della Madonna dell’Olmo e, dall’ottobre 1909, a Padova. Nel 1923 fu trasferito a Fiume (Rijeka), ma dopo poche settimane, su insistenti richieste dei Padovani, ebbe l’ordine di ritornare nella loro città, dove rimase fino alla morte, 30 luglio 1942.
Lì, nella sua angusta cella-confessionale continuò ad accogliere numerosissimi penitenti, ascoltandoli con pazienza, incoraggiando e consolando, riportando la pace di Dio nelle anime e ottenendo talvolta anche delle grazie di ordine temporale. Durante il gelido inverno e l’afosa estate, senza vacanze, tormentato da varie malattie, fino all’ultimo giorno rimase a servizio delle anime, divenendo un vero martire del confessionale.
Tutto ciò però, egli lo faceva tenendo sempre presente quella che egli stesso riteneva la missione primaria della sua vita: cioè l’essere utile al suo popolo e all’unione delle Chiese. Non avendo potuto darsi all’apostolato tra i fratelli separati orientali, si impegnò con voto, più volte ripetuto, di offrire tutto – preghiere, sofferenze, ministero, vita – a questo scopo. Pertanto, in ogni anima che chiedesse il suo ministero, egli aveva deciso di vedere il ” suo Oriente “.
Ma non per questo in lui venne meno il desiderio di servire il suo popolo anche con la presenza fisica. Disse un giorno ad un amico: ” Preghi la Padrona Benedetta di farmi la grazia che, dopo aver compiuta la mia missione a Padova, possa portare le mie povere ossa in mezzo al mio popolo per il bene di quelle anime. Da Padova, per ora, non c’è verso di poter scappare; mi vogliono qui, ma io sono come un uccellino in gabbia: il mio cuore è sempre di là del mare “.
Anche quest’ansia faceva parte di quel sacrificio per cui il p. Leopoldo merita di essere considerato uno dei più grandi precursori ed apostoli dell’ecumenismo. Mentre era in vita, la sua missione rimase nascosta; ora essa appare grandiosa di fronte a tutta la Chiesa. Il beato Leopoldo addita la via dell’unità di tutti i cristiani, che è la via del sacrificio e della preghiera perché ” tutti siano una cosa sola ” (Gv 17, 21).
Nel 1946 si avviarono i processi informativi per la beatificazione. Il 1° marzo 1974 fu emanato il Decreto sulla eroicità delle virtù del Servo di Dio, e il 12 febbraio 1976 seguì il Decreto sui miracoli attribuiti alla sua intercessione.
Il 2 maggio 1976 venne proclamato ” Beato ” da San Paolo VI. San Giovanni Paolo II lo ha canonizzato il 16 ottobre 1983.
SANTA PAOLA FRASINETTI (12/6)
vergine
Chiesa di Santa Chiara in Albaro (Genova), 12 agosto 1834: nasce una comunità di future suore educatrici, che sono sette. Aprono un paio di scuole per bambine povere, ricevono nuove aspiranti; ma poi alcune si ammalano, altre se ne vanno, girano maldicenze… Infine il padre della fondatrice la fa tornare a casa. Nascono così le Figlie della Santa Fede, poi Suore di Santa Dorotea, fondate da Paola Frassinetti, 25 anni, di fragile salute, di modi timidi e dolci. E di fortissima volontà. Aveva 9 anni quando le è morta la madre, e ha dovuto badare al padre e a 4 fratelli con l’aiuto di una zia. Dai 12 anni, morta pure la zia, ha fatto da sola. A 22 è diventata collaboratrice del fratello don Giuseppe, parroco a Quinto, presso Genova (e anche lui destinato agli altari). Ha progettato e fatto nascere la fondazione, poi l’ha vista bloccarsi: ma nella Pasqua 1846 la fa ripartire, dopo aver persuaso il padre. La comunità prende forma: l’abito, i primi voti.
Nel 1841 eccola a Roma, per piantare l’istituto anche lì: lei e due novizie, alloggiate sopra le scuderie dei principi Torlonia. Nel 1842 ecco la prima scuola a Santa Maria Maggiore, poi altre in varie parrocchie, una fondazione a Macerata, e una lotta terribile contro l’insufficienza dei mezzi… L’aiuto di Gregorio XVI e poi di Pio IX sostiene e carica Paola di nuove incombenze, di responsabilità, di fatica schiacciante. E questo le piace: con simili prove vuole misurarsi. Le affidano il “conservatorio” (una sorta di riformatorio femminile) presso Sant’Onofrio al Gianicolo. Accettato. Anzi, diverrà sede dell’istituto.
Ma nel 1849 diviene campo di battaglia: truppe francesi contro i volontari della Repubblica Romana, dopo la fuga di Pio IX a Gaeta. Arrivano lì i repubblicani, dipinti come sanguinari, e convinti a loro volta che le suore siano o fanatiche o prigioniere. Poi trovano in loro – per ordine di Paola – accoglienza, soccorso, ospitalità, cure ai feriti… Finisce che i presunti satanassi salutano militarmente ogni suora che incontrano. Corrono poi voci sinistre: Sant’Onofrio andrà a fuoco! Ma non accade nulla; anche perché una suora ha scritto una lettera a Giuseppe Mazzini, triumviro della Repubblica e anche, da piccolo, suo compagno di giochi. “Volontà di Dio, paradiso mio!”: è un’esclamazione tipica di Paola. Pare davvero che la sua forza di volontà abbia continuo bisogno di prove, di sfide. Nel 1865 le chiedono suore per il Brasile, e le manda. Ne chiedono per il Portogallo, e lei stessa va a occuparsene sul posto. Le case delle Figlie di Santa Dorotea nei vari Paesi diventeranno novanta nel XX secolo: ma lei lo dice già nel XIX, lei prevede e prepara il futuro, lì in Sant’Onofrio, dove si conclude la sua vita e dove resterà il suo corpo. Nel 1984, Paola Frassinetti viene proclamata santa da Giovanni Paolo II.
SANTA RITA DA CASCIA
(22/5)
Santa Rita nacque intorno l’anno 1381, probabilmente nel mese di ottobre, e morì il 22 maggio 1457. L’anno di nascita e la data di morte vennero accettate ufficialmente da papa Leone XIII quando la proclamò Santa il 24 maggio 1900. Margherita nasce a Roccaporena, a pochi chilometri da Cascia (PG), figlia unica di Antonio Lotti e Amata Ferri. I genitori, pacieri di Cristo nelle lotte politiche e familiari fra guelfi e ghibellini, diedero a Rita una buona educazione, insegnandole a scrivere e leggere. Già dalla tenera età Margherita era desiderosa di intraprendere il cammino che l’avrebbe portata verso la consacrazione a Dio, ma gli anziani genitori prima di morire, insistettero per vedere accasata la loro unica figlia. Mite e obbediente, Rita non volle contrariare i genitori e a soli sedici anni andò in sposa a Paolo di Ferdinando Mancini, giovane ben disposto, ma di carattere irruento. L’indole rissosa di Paolo non impedì a Rita, con ardente e tenero amore di sposa, di aiutarlo a cambiare. Ben presto nacquero i gemelli Giacomo Antonio e Paola Maria. Con una vita semplice, ricca di preghiera e di virtù, tutta dedita alla famiglia, Rita aiutò il marito a convertirsi e a condurre una vita onesta e laboriosa. Questo fu forse il periodo più bello della vita di Rita, ma fu attraversato e spezzato da un tragico evento: l’assassinio del marito, avvenuto in piena notte, presso il mulino di Remolida da Poggiodomo nella valle, sotto le balze di Collegiacone. Le ultime parole di Paolo, vittima dell’odio tra le fazioni, furono parole d’amore verso Rita e i suoi figli. Rita fu capace di una sconfinata pietà, coerente con il Vangelo di Dio cui era devota, perdonando pienamente chi le stava procurando tanto dolore. Al contrario i figli, influenzati dall’ambiente circostante, erano propensi e tentati dal desiderio di vendetta. I sentimenti di perdono e di mitezza di Rita non riuscivano a persuadere i ragazzi. Allora Rita arrivò a pregare Dio per la morte dei figli, piuttosto che saperli macchiati del sangue fraterno: entrambi morirono di malattia in giovane età, a meno di un anno di distanza dalla morte del padre. Rita ormai sola, e con il cuore straziato da tanto dolore, si adoperò a opere di misericordia e, soprattutto, a gesti di pacificazione della parentela verso gli uccisori del marito, condizione necessaria per essere ammessa in monastero, a coronazione del grande desiderio che Rita serbava in cuore sin da fanciulla. Per ben tre volte bussò alla porta del Monastero Agostiniano di santa Maria Maddalena a Cascia, ma solo nel 1417 fu accolta in quel luogo, ove visse per quarant’anni, servendo Dio ed il prossimo con una generosità gioiosa e attenta ai drammi del suo ambiente e della Chiesa del suo tempo. La sera di un Venerdì Santo, dopo la tradizionale processione del Cristo Morto, avvenne un prodigio che durò per tutti i suoi ultimi quindici anni di vita: Rita ricevette sulla fronte la stigmate di una delle spine di Cristo, completando così nella sua carne i patimenti di Gesù. Rita ne sopportò il dolore con gioiosa ed eroica forza. Salvo una breve parentesi, in occasione della visita a Roma per acquistare le indulgenze romane, la ferita rimase aperta sulla fronte di Rita fino al termine della sua vita terrena. Morì sabato 22 maggio 1457. Fu venerata come Santa subito dopo la sua morte come è attestato dal sarcofago ligneo e dal ‘Codex Miraculorum’ (lett. Codice dei Miracoli), documenti risalenti all’anno della morte. Ricognizioni mediche effettuate in epoca recente hanno affermato che sulla fronte, a sinistra, vi sono tracce di una piaga ossea aperta (osteomielite). Il piede destro ha segni di una malattia sofferta negli ultimi anni, forse una sciatalgia, mentre la sua statura era di 157 centimetri. Il viso, le mani ed i piedi sono mummificati, mentre sotto l’abito di suora agostiniana si trova l’intero scheletro.
Vedi anche https://santaritadacascia.org/
SANTA BERNARDETTA SOUBIROUS 16/4
Bernadette Soubirous è nata a Lourdes, a quei tempi cittadina dei Pirenei, il 7 gennaio 1844 in una famiglia di mugnai, piuttosto agiata nei primi anni della vita di Bernadette.
I mulini ad acqua incominciano a scomparire con l’inizio dell’industrializzazione. Il denaro viene a mancare al mulino. Louise e François Soubirous si indebitano, come tanti altri. In qualche mese sono diventati braccianti, non avendo più che la forza delle braccia da offrire a chi aveva la compiacenza di assumerli.
Cambiano casa più volte, sempre meno cara e più piccola, fino ad essere alloggiati gratuitamente in un’unica stanza buia e malsana della vecchia prigione della cita, il “Cachot”. Bernadette ha una salute precaria, soffre di male allo stomaco e, colpita dal colera durante un’epidemia, ne trarrà come conseguenza un’asma cronica. Fa parte dei bambini che in quell’epoca, in Francia, non sanno leggere né scrivere, perché devono lavorare. Andava a scuola di tanto in tanto, nella classe delle bambine povere dell’ospizio di Lourdes, tenuta dalle “Suore della Carità di Nevers”.
Nel 1858 giungerà per lei il periodo delle apparizioni.
L’11 febbraio 1858, Bernadette Soubirous, a quattordici anni, esce dal Cachot con sua sorella e un’amica per andare in cerca di legno secco sulla riva del Gave, a Massabielle. Bisognava riscaldarsi. Tutto incomincia con il rumore del vento tra i pioppi … Nel cavo della roccia Bernadette scorge una “Signora vestita in bianco”. La Vergine Maria viene così ad incontrarla diciotto volte tra febbraio e luglio.
Non rivelerà il suo nome che il 25 marzo. Ѐ la sedicesima apparizione. Gli altri incontri sono per la maggior parte silenziosi …
“Mi guardava come una persona che guarda un’altra persona”: attraverso questi incontri sorprendenti, Bernadette Soubirous comprende, grazie a Maria, che Dio si interessa di lei, che si fa prossimo dei più poveri, coloro che il mondo emargina e ignora. Durante tutto questo periodo Bernadette non si lascia intimidire né da chi la interroga, né dalla folla. Rimane semplice e vivace.
Dopo le apparizioni, il momento della scelta: Bernadette è assunta alla pari all’Ospizio di Lourdes tenuto dalle Suore della Carità di Nevers. Vi trascorre otto anni della sua vita. Vede le suore vivere il loro quotidiano con gli ammalati, gli anziani poveri e le bambine di famiglie senza risorse. Le suore sono in realtà vicine ai più poveri, come chiedeva loro il Fondatore della Congregazione.
“Voglio tanto bene ai poveri, mi piace curare gli ammalati, resterò dalle Suore di Nevers.”: la comunità accoglie Bernadette, lasciandola libera di scegliere la sua strada. Deciderà con calma: “Vado dalle suore, perché non hanno cercato di attirarmi, voglio tanto bene ai poveri, voglio tanto bene agli ammalati, resterò dalle Suore di Nevers.”. Nel 1866 parte per Nevers, la sua vita sarà d’ora in poi con le Suore della Carità di Nevers.
Bernadette a Nevers (1866 – 1879): la sera del 7 luglio 1866, con la superiora di Lourdes e altre due ragazze, Bernadette Soubirous varca la soglia della Casa Madre a Nevers, chiamata allora S. Gildard.
Già dal suo arrivo può leggere le parole “Deus Charitas est” scolpite sulla pietra del frontone dell’entrata. Queste parole esprimono lo spirito della Congregazione fin dalle origini.
L’indomani del suo arrivo a S. Gildard, nel suo costume dei Pirenei, Bernadette, per l’ultima volta, racconta le apparizioni davanti a 300 suore riunite per ascoltarla. Entrerà poi nel periodo di formazione alla vita religiosa.
La sua vita quotidiana di suora della Carità di Nevers: il 30 ottobre 1867, con 44 novizie, Bernadette pronuncia i primi voti . Avrebbe desiderato partire in una comunità per occuparsi degli ammalati e dei poveri, ma la sua salute non lo permette, perciò rimane in Casa Madre con l’incarico di aiutare in infermiera e di pregare. Lungo i tredici anni trascorsi a S. Gildard, Bernadette sarà successivamente aiutante in infermeria, responsabile dell’infermeria, sacrestana e, molto spesso, lei stessa ammalata. La sua vita è semplice e ordinaria. Bernadette ha un carattere gioioso, disponibile a quanto le viene chiesto.
“Non vivrò un solo istante senza viverlo amando”.
Passa lunghi periodi in infermeria. Colpita da un tumore al ginocchio e dalla tubercolosi polmonare che le causano forti sofferenze, muore il 16 aprile 1879, a 35 anni. La seppelliscono nella cappella S. Giuseppe, a metà del giardino.
un santo al mese
(15 marzo)
Artemide nasce a Boretto (Reggio Emilia) il 12 ottobre 1880, terzo di 8 fratelli, da papà Luigi e mamma Albina. Una famiglia povera, ma ricca di fede e di affetti. Costretta dalla povertà, la famiglia Zatti, agli inizi del 1897 (Artemide aveva 17 anni), emigra in Argentina e si stabilisce a Bahía Blanca. Ci saranno altri “migrazioni” nella vita di Artemide: quella da Bahia Blanca a Viedma ammalato di tubercolosi viaggiando sulla “Galera” quando sembra che tutti i suoi sogni dovessero svanire; quando migrerà dall’ospedale San Josè a quello Sant’Isidoro su un carro ornato di fiori e tra canti.
A Bahia Blanca il giovane Artemide frequenta la parrocchia retta dai Salesiani dove è parroco don Carlo Cavalli. Artemide trova in lui il padre e il direttore spirituale che lo orienta alla vita salesiana. A Viedma incontrerà padre Evasio Garrone che lo invita a pregare Maria Ausiliatrice per ottenere la guarigione, ma gli suggerisce anche di fare una promessa: “Se Lei ti guarisce, tu ti dedicherai per tutta la tua vita a questi infermi”. Artemide fa volentieri questa promessa e miracolosamente guarisce. Emette come salesiano coadiutore la sua prima Professione l’11 gennaio 1908 e quella Perpetua il 18 febbraio 1911, convinto che «si può servire Dio sia come sacerdote che come coadiutore: una cosa può valere per Dio quanto l’altra, purché la si faccia con vocazione e amore».
L’ospedale sarà per tutta la sua vita il luogo dove eserciterà, giorno dopo giorno, una carità ricca della compassione del Buon Samaritano. Quando sveglia i malati nei reparti, il suo saluto caratteristico è: “Buongiorno”. Viva Gesù, Giuseppe e Maria… Respirano tutti?”.
Esce abitualmente per la città di Viedma con il suo camice bianco e il borsello delle medicine. Una mano al manubrio e l’altra col rosario. Fa tutto gratuitamente. Un contadino che vuole esprimere la sua gratitudine salutandolo gli dice: “Grazie mille, Sig. Zatti, per tutto. Mi congedo da voi e vi chiedo di portare i miei migliori saluti a vostra moglie, anche se non ho il piacere di conoscerla…”. “Nemmeno io”, risponde Zatti, ridendo di gusto.
Artemide Zatti ama i suoi ammalati, vedendo e servendo in loro Gesù stesso. Un giorno dice al guardarobiere: “Un cambio di vestiti per Nostro Signore…”. Zatti cerca il meglio per i suoi assistiti perchè “a Nostro Signore dobbiamo dare il meglio”. Un povero bambino di campagna ha bisogno di un vestitino per la prima comunione e Artemide chiede: “Un piccolo vestito per Nostro Signore”.
Sa conquistare tutti e col suo equilibrio riesce a risolvere anche le situazioni più delicate. Uno dei medici dell’ospedale testimonierà: “Quando vedevo il Sig. Zatti la mia incredulità vacillava”. E un altro: “Credo in Dio da quando ho conosciuto il Sig. Zatti”.
In comunità è lui a suonare la campana, è lui a precedere tutti i confratelli negli appuntamenti comunitari. Da buon salesiano sa fare dell’allegria, una componente della sua santità. Sempre simpaticamente sorridente: così lo ritraggono tutte le foto.
Nel 1950 cade da una scala e in occasione di questo incidente si manifestarono i sintomi di un cancro che egli stesso lucidamente diagnostica. Si spegne il 15 marzo 1951, circondato dall’affetto e gratitudine di una popolazione di Viedma e Patagones che da quel momento comincia a invocarlo come intercessore presso Dio. La cronaca del collegio salesiano di Viedma riporta queste profetiche parole: “Un fratello in meno in casa e un santo in più in cielo”
per approfondire: https://zatti.org/it/home/
.S AN POLICARPO
(23/2)
Poco si conosce della vita di S. Policarpo.
Si sa che in gioventù si converti al Cristianesimo: ebbe la fortuna di essere istruito dagli Apostoli ed in special modo da S. Giovanni Evangelista che lo ordinò vescovo della Chiesa di Smirne verso l’anno 96, e fu primate di tutta l’Asia. Tanto fu l’affetto dei fedeli verso il loro pastore, che ognuno desiderava servirlo, ritenendosi fortunato al solo toccarlo.
A lui sono rivolte quelle parole dell’Apocalisse: «Io so la tua tribolazione e la tua povertà, ma sei ricco di virtù».
Un simile elogio, fatto dallo stesso Spirito Santo, ci mostra quanto fosse grande la sua virtù_ Infatti il suo zelo per la purità della dottrina era sì fervido che quando udiva qualche cosa di contrario si chiudeva gli orecchi gridando: « Ah, Signore, a quali tempi m’avete voi riserbato », e prontamente spiegava la verità.
Ritornando da Roma, s’imbattè a caso nell’eretico Marcione che superbamente gli chiese: Mi conosci tu? Cui Policarpo rispose: Sì, in te riconosco il primogenito del diavolo.
In età avanzata vide ripetersi le stragi di Nerone, nella quarta persecuzione mossa da Marc’Antonio e da Lucio Aurelio. I Cristiani dell’Asia furono provati con ogni sorta di supplizi, né doveva essere escluso il loro pastore.
Condannato e condotto nell’anfiteatro, udì una voce che dal cielo diceva: « Coraggio, Policarpo, sii costante ».
Quadrato. il proconsole a cui venne presentato il Santo, dopo avergli domandato il nome, cercò di persuaderlo di aver compassione della sua vecchiaia dicendogli: « Pensa che non potrai sopportare i tormenti, alla vista dei quali gli animi più robusti tremano. Di’ con tutto il popolo: “Siano sterminati gli empi giura per la fortuna degli imperatori e bestemmia il tuo Cristo ».
Ma Policarpo, con volto celestiale, rinvigorito di novella forza, gli rispose: «Sono ottantasei anni che servo il mio Signore: Egli non mi fece alcun male, anzi, ogni giorno ho ricevuto nuove grazie: come dunque posso io dir male del mio Creatore, Benefattore e Conservatore? Come posso offendere il mio Salvatore, il mio Dio, che è il Supremo Giudice, che deve punire i malvagi e premiare i buoni?».
In così dire una luce di Paradiso gli irradiò la fronte: il feroce proconsole comandò che fosse arso vivo. Policarpo si preparò al martirio annunciatogli con continua e fervorosa preghiera. Quando finalmente fu vicino al rogo, esultò di gioia indicibile e, gettando lontano da sè i bastoni su cui si appoggiava, accelerò il passo ed entrò nel fuoco.
A questo indirizzo si può trovare il racconto del suo martirio:
http://scritticristiani.altervista.org/policarpo.html
SAN MARCELLO, PAPA (16/1)
Nei primi tre secoli del Cristianesimo, non tutte le persecuzioni furono uguali. Da Nerone a Diocleziano, fu un alto e basso, un incrudelire e un blandire. Qualche Imperatore, come Decio, mirò più a fare apostati, cioè rinnegati, che Martiri, cioè « testimoni ».
L’ultima persecuzione, prima che Costantino accogliesse come insegna la Croce, fu quella del vecchio Diocleziano, e fu la più lunga e cruda. Ebbe inizio nel 303. Distrutte le chiese, bruciati i libri sacri, i Cristiani che si rifiutavano di sacrificare agli dèi erano considerati peggio di schiavi, I nobili, se cristiani, perdevano i loro titoli; gli ufficiali, i loro gradi; i funzionari, i loro uffici; i mercanti, i loro averi. A queste persecuzioni morali si aggiunsero presto anche quelle materiali. Accusati d’aver bruciato il Palazzo imperiale i Cristiani vennero arsi, affogati, decapitati, crocifissi, sbranati. Città intere restarono spopolate; l’esercito decimato.
Dinanzi a questo vero e proprio «terrore», molti Cristiani cedettero: abiurarono e apostatarono. Non tutti furono capaci di reggere, specialmente alla persecuzione civile, e per conservare, non tanto la loro vita, quanto la loro dignità, i loro gradi, i loro uffici, i loro averi, caddero nell’apostasia.
Vennero chiamati lapsi, cioè caduti; e relapsi quando erano ricaduti più di una volta nell’apostasia.
Per questi suoi figli infelici, la Chiesa devastata, smembrata, prese il lutto, e alla morte del Papa Marcellino si ebbe un lungo periodo di vacanza della sede apostolica.
In questo momento difficilissimo, anzi, addirittura tragico, s’alzò la figura di San Marcello, presbitero capo della Chiesa Romana. Nei calendari e negli elenchi dei Pontefici, gli viene dato il titolo di Papa, trentunesimo della serie Apostolica. Ma forse egli non fu Papa, ma soltanto «Presbitero capo», cioè primo tra i sacerdoti romani. In ogni modo, il suo pontificato ebbe inizio quattro anni dopo la morte del suo predecessore, e fu di breve durata. La Chiesa, dopo la persecuzione e l’assenza di un capo, mostrava le piaghe dell’infedeltà e le cicatrici del tradimento. San Marcello fu severo coi lapsi, ai quali impose gravi penitenze; severissimo coi relapsi. Duro con coloro i quali, addirittura, avevano formato una specie di partito «lassista», che tentava di giustificare, se non addirittura difendere, l’operato dei cristiani rinnegati.
E la durezza di San Marcello era santa e salutare, perché se i deboli possono destare pietà, i traditori compiaciuti e i protervi non possono suscitare che la riprovazione e la condanna.
Con la morte di Diocleziano e la successione di Massenzio, che doveva essere poi l’avversario sconfitto da Costantino, la persecuzione parve placarsi. La Chiesa romana si riorganizzò sotto la guida inflessibile di San Marcello, finché anche l’Imperatore Massenzio, insospettitosi, mandò in esilio il Pontefice, o «Presbiterocapo», della Chiesa Romana.
E in esilio morì, nel 309, per quanto le leggende, e anche il Martirologio accennino ad una fine diversa e più colorita. Narrano infatti come Marcello celebrasse nella casa che una ricca matrona, Novella, aveva lasciato alla Chiesa, convertendosi al Cristianesimo, e che si trovava sulla via Lata. L’Imperatore, avrebbe fatto trasformare quella casa-chiesa in una stalla per i cavalli dei corrieri imperiali; e san Marcello, dopo essere stato battuto con le verghe, fu condannato a servire come stalliere.
Nel qual servizio, conclude la Leggenda, dopo molti anni di fatiche e di strapazzi, si riposò in pace », cioè morì. Ecco perché San Marcello, presbitero-capo e Papa, viene venerato come Patrono degli stallieri e protettore delle scuderie, meno duro forse verso le bestie che con i relapsi compiaciuti e protervi!
SAN SIRO DI PAVIA
(09/12)
Tutti i pavesi sanno chi è San Siro, il ragazzo che portò i pani e i pesci a Gesù per il miracolo della moltiplicazione (Gv 6,9), oltre a essere il primo vescovo di Pavia, su incarico di San Pietro, è il santo protettore della città, che viene festeggiato il 9 dicembre.
Ma forse pochi sanno che la maggior parte delle notizie sul santo e vescovo è ancora oggi avvolta da un fitto velo di mistero, situata in quel confine sottile tra storia e leggenda dei primi anni del Cristianesimo, dalla morte di Gesù fino alla decapitazione di San Paolo a Roma.
I primi cenni storici sulla figura di San Siro si trovano nella cronaca del IX secolo Sancti Syri, che si basava sulle molte leggende legate alla figura del santo pavese.
Con il passar dei secoli, fino alla fine dell’Ottocento, molti studiosi considerarono valida la tesi dell’identificazione di Siro con il ragazzo dei pani e dei pesci, ma nel Novecento prese sempre più piede l’ipotesi che fosse solo uno dei discepoli di San Pietro, inviato a colonizzare la Pianura Padana dopo l’arrivo a Roma del padre degli apostoli.
E gli storici di Pavia che cosa pensavano di tutto questo?
Spelta dice nelle sue Cronache che “Erano già scorsi anni quarantacinque che Giesv Cristo nostro Signore per salutar l’humana prole vestitosi di questa nostra fragile spoglia venne ad habitar con gli uomini, & dodici, ch’egli avendo compitamente ispedita l’opera della redentione, era asceso al Cielo… quando sotto il Pontificato di San Pietro, e l’imperio di Claudio entrò in quest’ alma Città l’angelico pastore, tromba dello Spirito santo, maestro della verità, il glorioso nostro padre San Siro (…). Ho bene ritrovato, ch’egli fu consecrato da San Pietro suo Maestro insieme con San Marco Euangelista, e che l’anno 46. dal parto della Vergine co’l beato Inventio benedisse questa città” mentre il Breventano racconta nella sua storia “De Santo Siro… Il Divo Padre Siro primo Pastore del greggio Ticinese… fù al tempo de gli Apostoli nella primitiva Chiesa, fu adunque questo S. Padre uno di quelli (come appare per la sua sacra istoria) che riuscì dal chiarissimo fonte della divina Maestà, ciò è da Christo in Pietro, da Pietro in Marco, & da Marco in Hermagora, il quale per ordine di Pietro fu fatto Vescovo di Aquileia. Da questo Hermagora Siro suo speciale discepolo futuro Padre Ticinese fu mandato a Pavia à predicarvi la fede di Giesu Christo l’anno cinquantesimo, dal nascimento d’esso nostro Signore, & decimo settimo dal suo salir in Cielo”.
A complicare le cose alla fine dell’Ottocento ci fu un’ipotesi che riteneva San Siro attivo nel V secolo come discepolo di Sant’Ermagora, primo vescovo di Aquileia, ma ciò con ogni probabilità deriva dalla confusione con un santo omonimo, che divenne uno dei primi vescovi di Vercelli.
Solo grazie al sacerdote Cesare Prelini, che alla fine del XIX secolo trovò le ossa del santo nella chiesa dei Santi Gervasio e Protasio, fu possibile giungere al chiarimento dell’equivoco.
A proposito di tutto questo, lo scrittore e poeta pavese Virginio Inzaghi scrisse “La convinzione iniziale è dunque quella che riconosce Siro come vissuto nel primo secolo. Essa si basa fino ad un certo punto sulla Cronica la quale non porta però alcuna data ed è anzi convincimento attuale che sia stata scritta in questa forma esaltante solo per contrapporla alla Chiesa milanese che intendeva rivendicare un primato che la chiesa pavese, direttamente dipendente da Roma non intendeva accettare”.
Che sia vissuto nel I o V secolo dopo Cristo, in ogni caso San Siro rimane sempre il primo vescovo e uno dei santi protettori di Pavia.
SAN NICOLA TAVELIC E COMPAGNI (14/11)
Nicola Tavelic nacque a Sibenik in Dalmazia durante la prima metà del xiv secolo e divenne francescano a Rivotorto, nei pressi di Assisi. Fu inviato in missione in Bosnia, dove una setta denominata dei bogomili stava predicando una versione eretica del credo cristiano, che persino alcuni vescovi accettarono. Il compito di riportare la vera fede fu affidato ai frati domenicani e francescani. Nel 1219 S. Francesco d’Assisi aveva intrapreso personalmente una missione in Terra Santa; sgomentato dalla dissolutezza e dalla presunzione dei crociati, aveva attraversato le linee nemiche, correndo un grande pericolo, per cercare di incontrare il sultano, e aveva ottenuto per i francescani la custodia dei luoghi santi. Quando Nicola si unì a loro, l’ottava e ultima crociata era terminata da lungo tempo e Gerusalemme si trovava nelle mani dei saraceni. Nicola studiava e pregava insieme con altri tre francescani: Pietro di Narbona, Deodato di Rodez in Aquitania e Stefano di Cuneo. Il piccolo gruppo, un croato, due francesi e un italiano, giunse alla conclusione che l’ingiunzione del Signore di andare e predicare a tutte le nazioni doveva essere presa letteralmente e che dovevano portare il Vangelo anche ai musulmani. L’11 novembre 1391 andarono a trovare il Qadi, il giudice civile dei saraceni a Gerusalemme. «Siamo venuti» dissero «inviati non da un uomo, ma da Dio che si è degnato di ispirarci di venire a insegnarvi la verità e la via della salvezza.» Il Qadi fu dapprima meravigliato e poi adirato per la «sfrontatezza degli infedeli», in particolare quando non attenuarono le parole contro la sua religione: «Siete in una condizione di eterna dannazione, poiché la vostra legge non è di Dio, non viene da lui e non è nemmeno una buona legge; infatti è veramente iniqua. […] Contiene molte menzogne, cose impossibili, ridicole, contraddittorie e che conducono non al bene o alla virtù, ma al male e ai vizi». Furono parimenti aspri contro la persona di Maometto, che definirono «un libertino, assassino, ingordo e predatore, che ha posto nel mangiare, nel vestirsi e nel frequentare le prostitute il fine della vita dell’uomo». Il Qadi ordinò di ritrattare tutto, minacciando i quattro con la pena di morte. Furono, quindi, flagellati, gettati in prigione e, quattro giorni dopo, bruciati pubblicamente sul rogo. P. Gerardo Calveti, superiore della Custodia di Terra Santa dal 1388 al 1398, riportò i nomi e le loro dichiarazioni in una commovente testimonianza del loro martirio. La canonizzazione doveva essere promulgata nel 1941, durante la celebrazione dei milletrecento anni della conversione della Croazia, ma la seconda guerra mondiale lo impedì. Il decreto è stato emesso da S. Paolo VI il 21 luglio 1970.
Santa Maddalena da Nagasaki (Ottobre)
Maddalena nacque nel 1611 a Nishizaka, nei pressi di Nagasaki in Giappone, figlia di nobili e ferventi cristiani. Narrano gli antichi manoscritti che fosse una giovane gracile, delicata e bella. I suoi genitori e fratelli furono condannati a morte per la loro fede cattolica e martirizzati quando essa era ancora giovanissima.
Nel 1624 conobbe due agostiniani recolletti, Francesco di Gesù e Vincenzo di Sant’Antonio, poi anch’essi martiri e beati. Attratta dalla profonda spiritualità dei due missionari, Maddalena si consacrò a Dio come terziaria agostiniana. Da allora il suo abito fu quello religioso, le sue uniche occupazioni la preghiera, la lettura di libri santi e l’apostolato. Divenne in seguito terziaria domenicana. I tempi erano molto difficili e la persecuzione che infuriava contro i cristiani era divenuta sempre più sistematica e crudele. Maddalena infondeva coraggio ai cristiani, insegnava il catechismo ai fanciulli, domandava l’elemosina ai commercianti portoghesi per i poveri.
Nel 1629 cercò rifugio tra le montagne di Nagasaki, condividendo le sofferenze e le angosce dei suoi concittadini perseguitati, incoraggiandoli a mantenersi forti nella fede, riportando sulla retta via quanti, vinti dalle torture, avevano rinnegato Cristo, visitando i malati, battezzando i bambini, portando a tutti parole e gesti di conforto.
Di fronte alle apostasie di parecchi cristiani terrorizzati dalle torture alle quali erano sottoposti e desiderosa di unirsi eternamente a Cristo, Maddalena pensò di sfidare i tiranni. Vestita con l’abito di terziaria, nel settembre 1634 si presentò ai giudici, portando con se solo un piccolo fagotto pieno di libri santi per poter pregare e meditare in carcere. Neppure le promesse di un vantaggioso matrimonio e le torture subite riuscirono a piegare la sua ferma volontà.
Ai primi di ottobre fu sottoposta al tormento della forca e della fossa: sospesa per i piedi, allora con la testa ed il petto sommersi in una fossa sottostante, coperta con tavole per rendere più difficile la necessità. La coraggiosa giovane resistette al tormento per tredici giorni, invocando durante il supplizio i nomi di Gesù e Maria e cantando inni al Signore. L’ultima notte un acquazzone inondò la fossa e Maddalena morì affogata. Era il 15 ottobre 1634. I tiranni bruciarono il suo corpo e sparsero le ceneri nel mare, onde evitare una venerazione delle sue reliquie da parte dei cristiani.
Per procedere alla sua elevazione agli onori degli altari Maddalena fu aggregata ad un gruppo di sedici martiri domenicani di varie nazionalità, tutti uccisi in terra giapponese, capeggiati da Lorenzo Ruiz, primo santo di origini filippine. Fu beatificata il 18 febbraio 1981 a Manila nelle Filippine e canonizzata a Roma da S. Giovanni Paolo II il 18 ottobre 1987.
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San SATIRO (17 Settembre)
Satiro nacque probabilmente nel 330 o nel 332 d. C. ed era il secondo dei tre fratelli, preceduto da Marcellina. Il luogo che gli diede i natali è discusso: forse Treviri, dove certamente nacque Ambrogio, o forse Roma, dove la famiglia si trasferì perché appartenente all’aristocrazia senatoria. In giovane età, i due fratelli maschi intrapresero la carriera forense e divennero governatori di due province dell’impero romano.
Quando, nel 374, Ambrogio divenne vescovo di Milano, Satiro lasciò i suoi incarichi pubblici, con un intento preciso: sollevare il fratello dalle incombenze relative all’amministrazione della Diocesi, difendere Marcellina e il suo proposito di verginità e occuparsi del patrimonio di famiglia.
Dato che, fra le virtù menzionate nei due discorsi funebri, risalta in maniera particolare la sua castità, pare certo che non si sia mai sposato, proprio per essere più libero nel sostenere i suoi congiunti.
Satiro non era nuovo a comportamenti del genere: quando, come in tutte le famiglie, sorgevano dissidi fra il fratello vescovo e la sorella vergine consacrata, veniva da loro scelto come arbitro e riusciva sempre a non scontentare nessuno dei due. L’armonia e l’accordo erano in realtà predominanti, a tal punto che, quando Ambrogio veniva scambiato per Satiro in base ad una particolare somiglianza fisica fra di loro, gioiva se gli venivano rivolte delle lodi che in realtà andavano a suo fratello.
Di ritorno dall’Africa, fatta tappa in Sicilia, l’uomo avvertì i sintomi di una non ben precisata malattia.
Forse a quell’epoca risale un episodio che avrebbe poi goduto di una certa fortuna in campo iconografico: durante il ritorno a casa, la nave di Satiro incappò in una tempesta. Lui non aveva ancora completato il cammino dei sacramenti cristiani, ma richiese con insistenza ai compagni di viaggio un frammento di pane eucaristico: se lo legò al collo con un fazzoletto e poi si gettò in mare, «ritenendosi in tal modo – afferma Ambrogio – protetto e difeso a sufficienza». Giunto a riva, quasi certamente in Sardegna, avrebbe voluto ricevere il Battesimo, ma, una volta appreso che il vescovo locale aderiva allo scisma di Lucifero, vescovo
di Cagliari, decise di rimandare finché non avrebbe trovato un suo pari, fedele però a Roma e al Papa. Finalmente «ricevette la sospirata grazia di Dio e, ricevutala, la conservò integra», vivendo in maniera sobria e trattando il denaro senza attaccarsi troppo ad esso.
Non visse molto a lungo dopo quell’incidente: la malattia ricomparve e lo condusse alla morte nel 378. Ambrogio, come detto, lo ricordò pubblicamente e volle che i suoi resti mortali riposassero accanto a quelli del martire Vittore, nel sacello detto di San Vittore in Ciel d’Oro.
Da lì furono traslati, insieme a quelli dell’altro santo, in un sarcofago pagano riadattato ad uso cristiano, e vi rimasero anche quando le ossa di Vittore furono portate nella basilica detta appunto di San Vittore in Corpo, retta dai Benedettini Olivetani.
Il culto di san Satiro è attestato per la prima volta intorno al IX secolo, quando l’arcivescovo Ansperto da Biassono fece costruire una piccola basilica dedicata ai santi Satiro, Ambrogio e Silvestro, ponendola sotto la giurisdizione del monastero benedettino di sant’Ambrogio. Consacrata forse nel 1036 dall’arcivescovo Ariberto d’Intimiano, fu poi inglobata nella chiesa di Santa Maria presso San Satiro, progettata dal Bramante.
In base al suo amore per l’Eucaristia e al ruolo rivestito accanto al fratello vescovo, i sacrestani dell’Arcidiocesi di Milano considerano san Satiro il loro patrono.
San GIOVANNI EUDES (19/8)
Cognome e predicato della sua casata normanna: Eudes de Mézeray. Un suo fratello minore, Francesco, diventerà storico di corte. Lui, dopo i primi studi, viene accolto a Parigi nella Congregazione dell’oratorio, creata nel 1611 dal sacerdote e futuro cardinale Pietro de Bérulle, per formare buoni predicatori. Nel 1625, ordinato sacerdote, viene mandato a Caen, nella Normandia nativa. E qui lo sorprende la peste. Si fa infermiere dei malati e confortatore dei moribondi, ma i suoi amici si ten+654gono alla larga, per paura del contagio. Allora li tranquillizza, isolandosi: dorme su un pagliaio, dentro una botte. Prende il male anche lui, ma ne guarisce, e infine torna all’attività principale: le “missioni al popolo”, che sono cicli di soggiorno, incontri e predicazione, da un paese all’altro.
Percorre il Nord della Francia, dimostrandosi “predicatore di qualità straordinarie; dove passava, convertiva” (L.Mezzadri). Ma spesso si tratta di fiammate, che dopo la sua partenza si estinguono. E per varie ragioni: la Francia e l’Europa intera vivono uno dei loro momenti peggiori, la guerra dei Trent’anni (1618-1648); in alcune parti del Continente la fame produce il cannibalismo; i contadini di Francia sono alla disperazione, brutalmente depredati non da truppe nemiche, ma dai soldati del loro re, insaziabili e impuniti Molti non sanno più in cosa credere; la tradizionale pratica religiosa cattolica, già messa in crisi nel secolo precedente dalle guerre di religione, ora è anche attaccata dal movimento giansenista: i suoi ispiratori e maestri, noti per austerità di vita, cultura e schietti convincimenti, sono tuttavia portatori di una religiosità che a molti fedeli ispira reverenza e timore verso Dio, piuttosto che amore fiducioso e speranza. Ma il peggio non viene da fuori: sta dentro la Chiesa di Francia. Sta nel suo clero scadente e apatico, nell’ignoranza di troppi preti. Giovanni Eudes si convince che la prima necessità, urgentissima, è rifare il clero: e vorrebbe che fosse la “sua” Congregazione dell’oratorio a promuovere da Parigi questo sforzo grandioso. (Il concilio di Trento aveva decretato l’istituzione dei seminari già nel 1563, ma in Francia il decreto è rimasto largamente inapplicato).
Da Parigi arriva però una risposta negativa, e allora lui fonda nel 1643 la Congregazione di Gesù e Maria, formata da sacerdoti legati dal voto di obbedienza (e chiamati poi Eudisti) con lo scopo di tenere anche le “missioni al popolo”, ma soprattutto di aprire e dirigere seminari, che diano ai futuri sacerdoti l’indispensabile formazione spirituale. Per trasformarli da opachi funzionari del culto (come troppi di loro si sentono) in diffusori dell’amore incessante di Dio, simboleggiato nelle immagini del cuore di Gesù e del cuore di Maria.
Nello stesso 1643, fonda a Caen il primo seminario di Normandia (poi verranno quelli di Coutances, Lisieux, Rouen, Evreux e Rennes). Intanto, sempre a Caen, ha creato l’Ordine femminile di Nostra Signora della Carità, votato alla riabilitazione delle donne vittime di sfruttatori: un’istituzione che nell’Ottocento si svilupperà nell’Istituto del Buon Pastore, fondato da santa Maria Eufrasia Pelletier.
Sant’A POLLINARE (30/07)
Come spesso accade per i Santi del I secolo, non esistono molte fonti storiche certe sulla vita di Sant’Apollinare, primo Vescovo di Ravenna. Vissuto al tempo dell’Impero bizantino d’Oriente, determinante nella sua vita sembra essere l’incontro con l’apostolo Pietro. Alcune fonti, invece, datano la figura storica del Santo più tardivamente, intorno al 150-200.
Seguire Gesù in capo al mondo
Apollinare è un giovane di belle speranze, che vive ad Antiochia con la sua famiglia di religione pagana. Un giorno nella sua città arriva qualcuno che parla di un modo nuovo di amarsi gli uni gli altri, proprio come Dio ci ama. Si chiama Pietro e le sue parole sono quelle di Gesù, il Figlio di Dio che egli con i suoi occhi ha visto morire e poi risorgere per redimere l’umanità, e dal quale ha ricevuto l’incarico di costruire la Sua Chiesa. Per questo Pietro viaggia in lungo e in largo e intorno al 44 arriva proprio in Siria. Apollinare resta folgorato dalla Parola e decide di seguirlo a Roma. Da qui Pietro lo invia a Classe, vicino Ravenna, dove la marina romana ha una base con centinaia di marinai per lo più provenienti dalle terre orientali. Alcune fonti descrivono anche una missione evangelizzatrice in Mesia e Tracia della durata di circa 3 anni.
Protovescovo di Ravenna, per l’ira dei pagani
Apollinare è sveglio, afferra le cose al volo, e soprattutto parla bene. Riesce a portare alla fede cristiana molti, ottenendo la conversione di intere famiglie. Per questo Pietro gli affida la costruzione della Chiesa di Ravenna, di cui diventa di fatto pastore, cioè il primo vescovo. Arrivato in città guarisce la moglie del tribuno, ma appena le autorità lo vengono a sapere, gli chiedono di sacrificare idoli agli dei. Apollinare si rifiuta: risponde che gli idoli sono fatti d’oro e d’argento, materiali preziosi che sarebbe stato meglio donare ai poveri, e così viene brutalmente picchiato. Nonostante questo debutto difficile, reggerà questa chiesa per circa 30 anni, costruendosi la fama di “sacerdote” e “confessore” per cui è ricordato.
Il martirio e la diffusione del culto
Apollinare interpreta alla perfezione la missione pastorale del vescovo, riuscendo a conquistare alla fede l’anima di molti. Normale che a un certo punto finisse nel mirino dei pagani. Siamo sotto il regno di Vespasiano, nell’anno 70 d.C. Gli intimano addirittura di non predicare, ma lui si rifiuta di obbedire. Un giorno, di ritorno dalla visita a un lebbrosario, lo battono talmente forte da ridurlo in fin di vita: infatti, muore sette giorni dopo. Sul luogo del martirio verrà edificata una basilica – l’attuale Sant’Apollinare in Classe – consacrata nel 549. Il suo culto si diffonde rapidamente, anche oltre i confini cittadini: arriva a Roma grazie ai pontefici Simmaco e Onorio I, mentre il re franco Clodoveo gli dedica una chiesa vicino Digione. Nel IX secolo, infine, le sue reliquie vengono portate in città, e conservate nella chiesa che da quel momento prende il nome di Sant’Apollinare Nuovo.
San Vito (15/6)
Vito nacque a Mazara, antica città della Sicilia occidentale, da Ila idolatra e di nobile stirpe e da Bianca, virtuosa Matrona cristiana, il 286 dopo Cristo. Pochi giorni dopo la nascita di Vito moriva la madre. Iddio dispose gli eventi in modo che al tenero lattante fosse dato per nutrice una cristiana: Crescenzia, donna nobile di nascita, caduta in disgrazia, radicata nella fede cristiana e piena di virtù. Di recente le erano morti il marito e il figlio. Ancora in tenera età, Vito fu affidato al precettore Modesto, perché lo istruisse nelle lettere. Anche Modesto però era un fedele discepolo di Cristo. Alla scuola della nutrice Crescenzia e del pio Modesto, Vito fece grandi progressi nella coscienza e nella pratica della vita cristiana, tanto da chiedere il battesimo. Ila, venuta a conoscenza della fede di Vito, uso tutti mezzi per riportarlo all’idolatria, ma inutilmente. Reggeva, in quel tempo , le sorti dell’impero Diocleziano, il quale, con feroci editti, voleva fare annegare nel sangue il Cristianesimo. Valeriano governava la Sicilia in qualità di preside e fu strumento degli imperiali furori. Vito fu condotto davanti ai tribunali di Valeriano e fu accusato d’essere cristiano. Il preside, prima con le buone maniere, poi con le minacce, cercava di fargli rinnegare la fede e di riportarlo al culto degli dei dell’impero. Visto inutile ogni tentativo, stendendo il suo braccio destro, ordinò che fosse flagellato con le verghe. Si tramanda che, a seguito dell’ordine dato, il braccio di Valeriano sia stato fulmineamente colpito da paralisi e che abbia riacquistato movimento per l’intercessione di Vito. Turbato da simili avvenimenti, Valeriano riconsegnò Vito al padre, desistendo così dalla persecuzione contro il Santo.
I tentativi di ricondurre il figlio alla fede pagana furono ripresi, anche se inutilmente, dal padre. La casa d’Ila diventa per Vito luogo di tentazione e di pericolo per la sua fede. Il giovane atleta di Cristo per nulla intimorito dalle subite torture fuggì dalla casa paterna con i suoi educatori. Imbarcandosi di notte tempo su di una nave, ormeggiata al vicino lido, per divino favore, guidata dall’Angelo del Signore in veste di nocchiero, si rifugiò a Capo Egitarso (l’odierno Capo San Vito – San Vito Lo Capo) sperando di trovarvi la tranquillità. Dopo qualche tempo, riconosciuto, fu costretto a riprendere la peregrinazione. Dal Capo Egitarso il Santo giovanetto, in compagnia dei suoi educatori, andò ramingo in diversi luoghi della Sicilia. A lui si attribuiscono vari miracoli. Celebre, fra tanti, quello operato nelle vicine contrade di Regalbuto ove, in nome di Gesù, risuscitò, dalla morte un fanciullo, sbranato e ucciso dai cani. Con Modesto e Crescenzia, s’imbarcò e raggiunse il golfo di Salerno. Suo unico intento era di far conoscere Gesù Cristo. Nella Campania e nella Lucania il Santo giovanetto ammaestrava la gente idolatra alla verità della fede cristiana; molti si convertirono. Intanto, il figlio di Diocleziano era tormentato maledettamente dal demonio. Alcuni soldati, allora, per ordine dell’imperatore, andarono in cerca di Vito e, trovatolo presso il fiume Sele, lo condussero a Diocleziano. Per intercessione di Vito, il figlio dell’imperatore fu liberato dalle vessazioni del demonio. Diocleziano, ingrato, prima con carezze e promesse, poi con minacce, pretendeva che Vito rinnegasse Gesù per adorare la falsa divinità. Visto inutile ogni tentativo, lo fece rinchiudere in un’oscura prigione; lo sottopose a varie torture L’esposizione davanti ad un cane idrofobo; miracolosamente sarebbero sempre usciti illesi. Da ultimo sarebbero stati sottoposti alla terribile tortura della “catasta”. Con tale martirio Vito, Modesto e Crescenzia diedero l’estrema loro testimonianza. Era il 15 Giugno del 299 (o del 304 d.C.)